domenica 18 settembre 2011

Ground Zero Inside


Avevo deciso di non scrivere niente sull’11 Settembre perché mi sembrava fosse già stato detto tutto. Poi stasera ho visto un ulteriore documentario, uno dei tanti che in questi giorni sono così in voga, e in questo, tra miliardi di frasi fatte e retoriche, ne ho sentita una che mi ha colpito. La diceva una signora che aveva perso un fratello nelle Torri: “abbiamo tutti una Ground Zero dentro di noi.”
Quella signora ha centrato un punto preciso di me: anch’io ho una Ground Zero dentro, come ho un mio 11 Settembre. Anche se questo risale al 2 gennaio 1996 …
Tutto può cominciare una mattina di inizio anno mentre stai lottando contro il mal di testa e l’alcol che senti ancora salirti dallo stomaco mentre cerchi disperatamente di studiare perché tra pochi giorni avrai il tuo primo esame universitario e al professore non puoi certo raccontare che hai preso la sbronza più colossale della tua vita. L’aereo ti colpisce con una telefonata e le parole che senti dall’altra parte della cornetta ti rimbombano nella testa come il rumore dell’apparecchio che penetra e infrange i vetri del World Trade Centre accompagnato da centinaia di urla terrorizzate.
C’è stato un incidente e Lei, la tua amica di vecchia data, è ferita gravemente. E l’adrenalina comincia a scorrerti nelle vene come quei disperati che scappano dalle torri con ogni mezzo. Mentre arrivi all’ospedale pensi a cosa puoi fare per starle accanto, al diavolo l’esame, e senti dentro di te il fermento di migliaia di persone che salgono e scendono per salvare il salvabile.
Ma da salvare c’è ben poco, perché le Torri, quelle torri fatte della tua convinzione che, quando si è giovani, certe cose succedono solo agli altri, crollano nel momento stesso in cui senti le parole che sanno di polvere, di vetro e amianto e che escono dalla bocca di chi è autorizzato a farlo: Lei non c’è più.
Ci metti un po’ a riprenderti dallo shock per il crollo interiore, dalla polvere che  ti avvolge l’anima e continui, imperterrita a cercare di salvare ancora qualcosa. Scavi nelle macerie a cercare qualche superstite, qualche ricordo, qualcosa che ti confermi che c’è un errore. Ma poi, arrivi al momento in cui ti devi fermare. Arrivi al momento in cui ti devi arrendere alla realtà per cui non c’è errore. Non c’è nulla da salvare.  Lei non c’è più, le Torri sono crollate.
Arrivi al momento in cui dentro di te ci sono solo macerie, c’è solo un grande buco, quella Ground Zero che sai non riempirai mai e che non puoi evitare.
Devi cominciare a ricostruire decidendo cosa fare di quel buco che deve diventare un cantiere nella tua anima. Ci sono quelle macerie fatte di ricordi che ti mettono in crisi: cosa farne? Come smaltirle? Stai tra la paura e il desiderio di perderle. Paura perché sai bene quanto sono importanti e desiderio perché speri che così puoi ritrovare più facilmente la serenità. La verità è che non puoi smaltirle come vorresti. La verità è che quelle sono “rifiuti speciali” fatti di momenti preziosi che non torneranno, di piccoli oggetti che hai condiviso, di sogni fatti che non realizzerai. Ci devi trovare un posto, perché non puoi tenerli lì, al centro del tuo petto. In un qualche modo devi ricostruire da quel buco. Anche se sembra impossibile, devi trovare il modo di proseguire la tua strada, mutilata come una città che in un colpo solo perde migliaia di persone e tante certezze insieme alle sue Torri, e costretta a fare di quella mutilazione un punto di forza che ti renda una persona migliore. E questa non è una scelta, è una necessità.
Ci vuole tempo. E quando pensi che sia in una quantità giusta, qualcuno ti dirà che ne è passato troppo poco per tornare a sorridere, a riaccendere le mille luci del tuo io, e qualcun altro ti dirà che ne è passato troppo e che i lavori di ricostruzione della tua Ground Zero stanno procedendo a rilento. Quello che molti fanno finta di non sapere è che quel buco, quella ferita l’avrai sempre, non potrai rimarginarla mai. E solo tu ti rendi conto che è giusto così, che non puoi ricostruire le Torri identiche a prima perché non lo saranno mai. Perché Lei è uscita dalla tua vita, ma ne ha fatto comunque parte e negare questo sarebbe solo un insulto.
Quello che puoi fare, quello che tutti decidono di fare, è di costruire su Ground Zero qualcosa di nuovo, di diverso, qualcosa che dia il senso, non alla perdita, ma alla presenza che fu. Decidi, ad esempio, che una sbronza del genere non te la puoi permettere, perché potrebbe venire un amico a dirti che ha bisogno di parlarti, ma che ripasserà perché tu, in quel momento, non sei in grado di connettere. Ed ora, lo sai, c’è anche il rischio che tu, quell’amico, non lo riveda più. E, anche se sei in grado di superare il senso di colpa, almeno la consapevolezza di questo a Lei, alla sua presenza che fu, glielo devi. Quindi quella sbronza rimarrà la più colossale della tua vita, anche se non sarà l’ultima.
Come la città reduce riprende il suo ritmo, anche tu riprendi il tuo quotidiano, anche tu reduce. Lentamente, un  po’ alla volta. Perché il quotidiano ha l’enorme potere di alleviare tutto, di appiattire sotto la sua banalità, qualunque forma di stravolgimento dell’anima. Il quotidiano riesce a invadere e a conquistare nuovamente la città ancora sconvolta dall’attacco e trova un nuovo spazio dove mettere quelle macerie facendo un sacco di progetti per riappropriarsi del luogo che una volta era occupato da Lei.
Ma, è inutile illudersi, la città che hai dentro non è più quella, forse è più matura, forse solo più temprata e se qualcuno ti viene a dire che sei sempre quella e che ti sei ripresa bene, allora, e tu lo sai molto bene, ti sta dicendo una cazzata.





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