martedì 26 aprile 2011

26 aprile 1986 ore 1:23:45- quando la Farfalla ha sbattuto le ali



Avete presente la teoria dell’Effetto Farfalla? Questa speculazione è un’esemplificazione della più complessa Teoria del Caos e si basa su un racconto di Bradbury (Rumore di Tuono) del 1952, in cui si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo.
La farfalla di cui voglio parlare ha sbattuto le ali nella notte del 26 aprile del 1986 e questo battito si è presentato sotto la forma del reattore numero 4 della Centrale V.I. Lenin di Cernobyl. In quella notte, durante un test, tutte le precauzioni e tutte le regole del buon senso saltarono insieme a un reattore nucleare. A onore di verità bisogna aggiungere che quel buon senso all’epoca non si poteva avere perché i protocolli per una simile eventualità ancora non esistevano. Terribile a dirsi, ma la farfalla ha prodotto anche nuove conoscenze scientifiche.
Secondo alcuni storici l’esplosione della centrale di Cernobyl costituì il colpo finale al sistema economico già in crisi dell’Unione Sovietica. La contaminazione delle aree agricole attorno alla centrale fecero sì che il sistema collassasse. Infatti di lì a tre anni il Mondo a poli contrapposti uscito dalla seconda guerra mondiale cessò di esistere. Facile, a questo punto, ricostruirne le conseguenze: il Crollo del Muro di Berlino, il disarmo nucleare (già cominciato con gli accordi di Reykjavik nel 1985), la fine della Jugoslavia e la sua serie di drammatiche conseguenze, la conclusione del conflitto Iran-Iraq (1988), la cessazione dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa (1988) con successiva guerra civile che portò l’ascesa al potere dei talebani.
Se vogliamo estendere il ragionamento e portarlo al limite del fantastorico (ma quanto “fanta” e quanto “storico”?) potremmo arrivare a sostenere che la I Guerra del Golfo fu una figlia di Cernobyl, che il massacro di Srebrenica fu un figlio di Cernobyl, che la fine del nostro P.C.I. fu un figlio di Cernobyl e via dicendo fino all’11 Settembre che, se non fu proprio un figlio di Cernobyl, ne fu comunque un lontano nipote. La farfalla che sbatté le ali appunto. 

Io, però, non sono né una storica, né una studiosa di scienze politiche e di quella farfalla voglio parlare secondo i miei ricordi e le mie esperienze.
Di quei giorni ricordo che si guardava il cielo perché, in caso di pioggia, non si poteva uscire di casa. Mi ricordo che non si poteva giocare in giardino anche se era maggio, mi ricordo che non c’era il latte e che mi toccava bere il the a colazione, mi ricordo che non si poteva mangiare l’insalata. Di quei giorni mi ricordo che, per la prima volta in vita mia, un fatto che avveniva a migliaia di km di distanza mi coinvolgeva in prima persona. A pensarci adesso quello fu il mio primo impatto con un fenomeno che ora conosciamo molto bene: la globalizzazione. Forse è per questo motivo che “sento” quella tragedia in modo così fortemente empatico. 

Nella mia ricerca per saperne di più a proposito di questa storia, qualche tempo fa mi sono imbattuta in un libro che mi ha colpito profondamente. Si intitola Preghiera per Cernobyl e l’ha scritto Svetlana Aleksievic diversi anni fa. Questo libro altro non è che il racconto intorno all’umanità che Cernobyl ha creato. Un’umanità fatta di persone che non hanno più una loro identità dopo l’evacuazione di Pripjat e delle altre zone circostanti, pensare alle discriminazioni che hanno subito a causa del loro essere “potenzialmente pericolosi” mi fa venire i brividi. Ci sono persone che ancora oggi vagano per i paesi nati dallo smembramento dell’Unione Sovietica tra un ospedale e l’altro: non sono solo i tumori a uccidere, ma anche le sindromi post traumatiche con l’aumento dei suicidi. Queste persone hanno perso non solo tutti i loro affetti e i loro beni materiali, ma anche un certo tipo di fiducia nel futuro perché marchiati come “destinati alla malattia”. Altre persone sono andate a vivere nella Zona Proibita perché non c’era un altro posto dove andare, sono profughi di guerre dimenticate. Uomini e donne che hanno dato la vita intorno alla Centrale e che continuano a darla. 

All’ombra di quel reattore si sono consumati atti di puro eroismo. Ci sono stati i pompieri che, spegnendo il reattore, si sono distrutti e hanno distrutto tutto quello che li attorniava in due settimane perché colpiti da sindrome acuta da radiazioni. Ci sono stati i sommozzatori che si sono tuffati nelle acque radioattive delle vasche che si trovavano sotto il reattore esploso svuotandole ed evitando, così, una seconda esplosione per fusione termica che sarebbe costata la vita a milioni di persone. In questi giorni ho visto un filmato dell’epoca per il reclutamento dei sommozzatori volontari: nessuno si tirò indietro. Ci sono stati i liquidatori (quasi 600.000 persone) che, in gran parte, sono stati colpiti da tumore. Di queste persone non conoscerò mai i loro nomi uno per uno, ma questo non mi autorizza a dimenticarli perché, forse, la mia salute odierna gliela devo.

Nonostante quello che sostiene il governo bielorusso, oggi la Zona di Cernobyl è ancora devastata non solo nell’aria, nell’acqua e nella terra, ma anche negli animi di chi la vive. Perché è una delle pochissime zone (forse l’unica in Europa) che ha visto una diminuzione della qualità della vita, un aumento della disoccupazione e della povertà, e un conseguente aumento della tossicodipendenza e dell’alcolismo. In quest’area la povertà estrema rende difficile anche solo la possibilità di nutrirsi e di scaldarsi in modo sufficiente e questo provoca anche un aumento di difterite e tubercolosi, che vanno a sommarsi all’incremento dei casi di AIDS e di epatite. Calcolare quanti siano stati i casi di tumore pare sia impossibile. Tutto questo viene vissuto con grande fatalismo e una grande responsabilità di questo fatalismo senza speranze sembra essere dovuta soprattutto all’aver insistito nel definire questa popolazione come vittima del disastro di Cernobyl, instillando negli individui la percezione di essere fatalisticamente condannati, senza speranze e alcun futuro. Queste persone sono state viste come unti dalla malattia prima ancora di ammalarsi.
Intanto il governo ucraino sta cercando fondi per ricostruire il sarcofago che si sta sgretolando come le case di Pripjat, la città fantasma. Fondi che sembrano essere difficili da trovare.

E nel frattempo, dall’altra parte del mondo un’altra centrale è saltata.

Mi chiedo come queste persone, figlie di un paese che non esiste più, possano vedere quello che sta accadendo in questo periodo o se ne siano a conoscenza. Chissà con che occhi vedono l’incidente di Fukushima.  Se si sentono vicini ai giapponesi che stanno vivendo una tragedia così simile alla loro o se non gliene frega niente. Chissà se sanno che in Giappone c’è una Fukushima. Chissà cosa comprendono della Storia che gli ha investiti e li ha dimenticati per strada. Chissà quando la Storia che li ha investiti e dimenticati per strada deciderà di ricordarsi di loro. Chissà se ci sarà, da qualche parte, un’altra farfalla che, sbattendo le ali, rimetterà le cose al loro posto ridando a questa gente quello che è stato loro portato via.

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