“Sono sempre stato orgoglioso della mia solitudine. L’ho scelta: l’ho
ostentata. Era l’unico modo per riuscire a conviverci. Ora non so nulla di ciò
che sarà. So soltanto che ho paura: paura di sbagliare ancora e di non saper
affrontare la situazione in cui sono capitato.”
A volte succede, leggendo un libro,
di trovarsi in una particolare alchimia con i personaggi. Sono libri preziosi quanto
costosissimi gioielli, ma molto più rari. Perle in un oceano di bassa editoria.
Non so se capita solo a me, ma staccarmi da questi volumi diventa quasi una
violenza. Lasciarli andare, una volta finiti, una fatica. E poi vengo anche
assalita da una strana malinconia. Come quando torno a casa da un viaggio
meraviglioso e la routine mi turba più del dovuto.
Era da tempo che facevo fatica a
leggere un libro che potessi considerare degno di essere letto in questi
termini. Da mesi leggevo romanzi carini, piacevoli, ma che non mi donavano quel
qualcosa in più che non mi lasciava andare.
Tanto tempo fa una mia insegnante era
solita dire: “smettetela di dire che non vi piace leggere e cominciate a dire
che non avete ancora trovato il libro degno di essere letto da voi.”
Era da tempo che cercavo QUEL romanzo
degno di essere letto, quello che mi entra in testa, quello che mi fa pensare
come i protagonisti, quello che mi costringe a cambiare il mio punto di vista perché
necessito di vedere le cose con la patina della finzione, quello che influenza
anche il mio modo di scrivere.
Mi è capitato con questo romanzo,
comprato per caso, incuriosita dai commenti positivi. Mi dicevo “chissà cos’avrà
di speciale?” ormai vinta dall’apatia che mi coglie quando un incontro speciale
con la carta stampata tarda ad arrivare.
E invece, con Lui, questa specie di
miracolo mi è capitato: ci sono libri che ti entrano dentro e non sai il perché,
e Il Corpo Odiato di Nicola Lecca lo ha fatto più di altri. Con un elemento aggiunto: quello
dell’assurdità della situazione. Perché io, con il protagonista, non ho nulla a
che spartire all’apparenza. Cosa posso avere in comune con Gabriele, un ragazzo
di 19 anni che va a vivere da solo a più di 1200 km dal paesino natale? Sicuramente
non il coraggio di affrontare sé stesso, le proprie paure, il proprio corpo.
Perché, nonostante le apparenze, Gabriele è adorabile nella sua crescita che non è fatta di successi e vittorie, ma della vera presa di coscienza di sé stesso. È un grande, nel suo piccolo, nelle sue paure, nei suoi complessi, nelle sue insicurezze. Una figura agli antipodi da me. Eppure,
mai prima d’ora mi ero identificata così tanto con un personaggio inventato.
Mi sono trovata a camminare per
strada pensando nei termini che usa Gabriele, ad ascoltare la musica che
ascolta lui, a evitare di guardarmi troppo allo specchio.
Adoro Shostakovich e la sua Sinfonia
di Leningrado. Una volta mi piaceva e basta, era una cosa che ascoltavo di
tanto in tanto, uno di quegli aspetti di me che nessuno doveva sapere. Ora l’adoro.
Ora posso dire al mondo intero che ascolto anche “quella roba lì” e che ne sono
quasi dipendente. Colpa di Gabriele.
Ma non solo: Gabriele mi ha lasciato
con un senso di incompiuto: mi sento come se fossi sua zia e mi preoccupo perché
non so come sta adesso, non ho più sue notizie.
Mai uno stile di scrittura mi aveva
coinvolto tanto. Solo parole in un diario. Parole magnifiche però.
Se sapessi scrivere bene vorrei
scrivere così. Ma non ne sono capace.
Nessun commento:
Posta un commento