Sono sulla strada del ritorno,
sola in un treno poco affollato che corre veloce. Troppo veloce. Veloce come i pensieri e i ricordi che
affollano questa mente troppo vuota. Troppo vuota eppure incredibilmente piena.
Ricordi ancora troppo vivi. Mi sento strappata da una bella realtà che ho
vissuto per istanti brevi. Brevissimi. E questo treno che corre veloce mi manda
immagini da un finestrino che non guardo, presa come sono a rivivere quanto
appena vissuto. Anche le immagini sono troppo veloci, più veloci delle dita che
cercano di seguire il mio flusso di coscienza. Non voglio lasciarle andare. Non
posso. Non sono pronta. Ecco perché scrivo cercando di soddisfare un bisogno
urgente mentre i secondi accelerano inesorabilmente.
Sono troppo lenta per questo
mondo, non riesco a stare al passo. Vorrei che, ogni tanto, rallentasse e
aspettasse i miei tempi, i miei ritmi. Che si dilatasse un poco per farmi
vivere più a lungo la magia.
Domani si torna alla routine
vorticosa che coinvolge il mio quotidiano e violenta i miei ricordi. Il solito
trauma. Domani devo rimettere tutto in un cassetto, chiuderlo per bene e
concentrarmi su altro. Come se fosse facile. Come se ne avessi voglia.
Ho sempre paura che questo
quotidiano affievolisca il ricordo. Lo offuschi. Ho sempre voglia di tornare
indietro nel tempo. Non molto. Non chiedo di tornare al giorno in cui ho
commesso il Grande Errore per rimediare. No. Mi basta tornare a 24 ore prima e
rivivere gli istanti belli appena trascorsi. Per rimanere con amici che abitano
troppo lontano e con cui passo sempre troppo poco tempo. Per poter ancora
parlare della dimensione giusta delle polpette. Detta così, adesso, qui, non fa
neanche ridere a chi non può capirla, perché, sfortunato lui, 24 ore fa non era
con me.
Poi, lui: il mio tempio con il
suo rito.
Mi è piaciuto? Ancora una volta:
non lo so. Ancora una volta posso dire “l’ho vissuto”. Ancora una volta l‘ho
amato. Il rito si è ripetuto, ancora uguale, ma profondamente diverso. Più
chiassoso forse, più popolare, meno intimo, ma è stato quel rito, quella droga
di cui non posso fare a meno. Anche se solo per una volta all’anno.
Sono
momenti che non posso che commentare e giudicare così: è vissuto, è provato,
sentito, amato, odiato. Non so perché mi succede sempre, ma non riesco a
fermarmi al semplice giudicare qualcosa di visto. Ho bisogno di rivivere con
gli occhi della mente ancora per un po’ tutto questo. Farlo mio e ancora mio. Per
fortuna c’è sempre il mio programma da sfogliare e risfogliare. È un qualcosa
di personale, intimo, troppo personale per lasciarlo andare alla lettura
altrui. Non parlo del programma, parlo proprio del ricordo. Io non sono un critico.
Non posso esserlo. Ormai credo che molti abbiano capito che riesco a commentare
solo quello che mi ha coinvolto meno. Se una cosa diventa commentabile, allora
non mi ha coinvolto abbastanza. Sono fatta così e non ci posso fare niente, ho
capito che a violentare questa mia natura, l’unico risultato che ottengo è di
scrivere giudizi sbagliati. Io non sono un’artista, i miei sentimenti intimi
non possono arrivare fino alla punta delle mie dita.
Mentre il
treno continua a correre, sento di non potermi fermare solo al rito. Non mi
basta per nutrire i ricordi. Ho bisogno anche del contorno. Del pranzo di oggi
con persone che non vedevo da tempo e che avevo voglia di vedere. Persone con
cui sono stata bene. Non mi capita poi tanto spesso di stare bene insieme alle
persone. Ma anche questo è un piccolo miracolo. Voglio dire: stare bene con le
persone per me è un piccolo miracolo. Spesso recito un’allegria e una voglia di
comunicare che in realtà non provo. Spesso recito, ma non sempre. Oggi, ad
esempio, no. Oggi non ho recitato.
Intanto
il controllore mi chiede il biglietto che estraggo dalla mia busta perfetta e
penso “ecco è proprio tutto finito: tutti biglietti sono vidimati, controllati
ora potrei anche buttarli.” Ma non li butterò. Non li ho mai buttati.
Ci sono
sempre tante cose da dire, è bello quando si ha tanto da dire. Ed è bello anche
quando si ha tanto da ascoltare. Forse non sono discorsi importanti, ma lo sono
per me, per i miei ricordi, per i miei sogni futuri, per quel desiderio che si
appaga sempre e solo in parte.
Deve essere
per quel piccolo neo, quella sfumatura, quella infinitesima mancanza, un
virgola appena, che tutto questo, adesso, qui, mi sembra ancora troppo vivo,
troppo irrisolto. Ma quella sfumatura è una cosa troppo intima per arrivare
alle dita.
Mi manca
già. Mi manca il rito, il tempio, il pranzo, i discorsi sulle polpette e quel
niente che non c’è stato. E adesso devo staccare perché sono quasi arrivata
nella mia città. Quella città che amo tanto, ma che dopo il rito mi sembra
sempre più piccola, più spenta, più morta. Come reagirò questa volta alla
malinconia che mi avvolge così?
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