mercoledì 23 febbraio 2011

Grazie...

Mentre l’asfalto scivola sotto di me e guardo avanti la strada che appare infinita, ripenso al piccolo viaggio che sto terminando. E ripenso alle persone che ho incontrato nel corso dei miei viaggi. Piccole parentesi nella mia vita che, senza saperlo, mi hanno donato tanto. Queste righe le dedico a loro: nomi a me ignoti o dimenticati. Piccole storie che riaffiorano sparse nella mia mente.

Grazie alla donna macedone che a bordo strada portava la sua bambina senza vita in braccio, lei che camminava e piangeva. Lei che guardava il nostro passaggio a testa alta. Grazie perché per la prima volta ho visto il dolore vero e ho sentito di essere fortunata. 

Grazie a quei turisti olandesi che con la loro maleducazione mi hanno fatto ribellare. Grazie perché ero bambina: ho alzato la testa e mi sono fatta valere senza mamma e papà. 

Grazie a quel napoletano che ha girato la macchina e per chilometri ci ha portato fino a destinazione. Ci eravamo persi e lui ci ha aiutato. E poi ci ha sorriso e ci ha detto: benvenuti nella mia città. 

Grazie a quel bimbo tunisino che, a piedi scalzi in mezzo alla nuda terra in un paesino, mi ha fatto un sorriso sdentato e mi ha salutato con la sua manina sporca. grazie perché ha guardato e sorriso al benessere che gli passava accanto senza invidia.

Grazie alla guida in Polonia che mi parlava di cos’era la vita in un campo di sterminio. Grazie perché mi ha donato una nuova definizione di dignità. 

Grazie ai ballerini russi del Lago dei Cigni. Grazie perché mi hanno fatto innamorare di una splendida forma d’arte. Il loro spettacolo non era un granché, ma solo ora lo capisco. 

Grazie a quel cuoco ungherese che si è mostrato tanto contento dei miei complimenti per il suo goulash, dicendo che i complimenti di un’italiana valgono doppio. Grazie perché ora non li lesino mai. 

Grazie a quel capostazione inglese che mi ha recuperato la valigia: l’avevo persa in giro per i sobborghi londinesi e lui, ridendo, me l’ha recuperata: mi ha fatto sentire simpatica e non impedita. 

Grazie a quella turista giapponese che voleva farsi fotografare sorridente seduta sul bordo di una latrina di Birkenau. Grazie perché, per la prima volta, mi ha fatto capire che posso provare disgusto per una persona anche se sconosciuta. 

Grazie al venditore di tappeti egiziano che mi ha regalato un papiro con il mio nome scritto in arabo. Grazie perché mi ha detto: hai una luce bellissima in fondo ai tuoi occhi, ma stai attenta perché la stai perdendo. Gli sono bastati cinque minuti per leggermi dentro come nessun altro. 

Grazie a quel ragazzo irlandese così ubriaco al punto di non capire che aveva una gamba rotta. Grazie perché adesso ho sempre un aneddoto su cui ridere. 

Grazie a quell’uomo e a quella donna incinta che ridevano abbracciati davanti alla Moschea Blu. Grazie perché hanno smontato quel luogo comune che non vuole l’amore in una coppia mussulmana. 

Grazie a quel impiegato della sanità pubblica norvegese che ha fatto di tutto per farci fare un esame clinico. Grazie perché ci ha fatto sentire persone e non numeri. 

Grazie a quella guida di Kairouan che mi ha detto: voi italiani avete una vita più confortevole, ma a noi resta ancora il tempo di abbracciare un amico e salutarlo se lo incontriamo per strada. Grazie perché ho capito che non è vero che il tempo è denaro.

Grazie al poliziotto della dogana americana che mi ha dato il benvenuto dopo il mio primo viaggio transoceanico con un bel sorriso. 

Queste persone, come le tante gocce che colano su un vetro in un giorno di pioggia creando un bellissimo disegno anche se malinconico, hanno donato un sapore speciale ai miei ricordi. Hanno disegnato un po’ di me, vetro esposto a un giorno di pioggia. Se è vero che partire è un po’ come morire allora tornare vuol dire rinascere ed io sento che grazie a tante persone sono sempre un po’ rinata.

mercoledì 2 febbraio 2011

mi è piaciuto?


Possibile che sia già così tardi? Mannaggia tra poche ore dovrò essere pronta e devo ancora cominciare! Ok. Vado. Doccia. Crema per il corpo. Ma quanto la odio? Vabbè, per stasera è un sacrificio che posso anche fare. Le unghie come sono? Mio dio che schifo! Ok, manicure rapido: devo essere perfetta. Capelli. Ma perché non mi decido ad andare a farmi la messa in piega una buona volta? Per un’occasione del genere ci sta! Ormai … se anche conoscessi un parrucchiere a Milano, non avrei tempo. Cerchiamo di rendere socialmente accettabile questa specie di nidi per le rondini. Trucco. Meno male che le ore per decidere i vestiti e il trucco di conseguenza le ho già perse a casa quando ho fatto la valigia, altrimenti ci avrei messo almeno due giorni per prepararmi. Cacchio che schifo! Prometto che un giorno di questi vado a fare un corso per imparare a truccarmi: sembro sempre un misto tra una geisha e un clown. È inutile: non sono nata elegante, per quanto mi sforzi, faccio sempre l’effetto di quella appena alzata con il pigiama di Hello Kitty addosso. Profumo. Vestiti. Se mi sporco il vestito con il trucco, è la volta buona che la Madonnina scende dal Duomo per chiedermi di essere meno scurrile … meno male tutto ok. Scarpe. Non ho scelta: ci vogliono i tacchi. Una serata come questa li richiede. Domani sarò zoppa e con la schiena rotta come un taglialegna degli Urali, ma per Lui ne vale la pena. Ne vale sempre la pena. Pronta possiamo andare.
Eccomi. Eccolo il mio Lui. Che emozione. Mentre sosto qualche istante sotto il portico mi manca quasi il respiro. Mi succede sempre: non è la prima volta che vengo, ma tutte le volte è come se lo fosse. Varco il portone. Sento un qualcosa che mi attanaglia il petto: si chiama emozione. Gli ori, gli stucchi, le maschere in livrea che mi strappano quel prezioso talloncino che ho atteso per giorni mesi fa mi colpiscono sempre: sono troppo per una come me. Sulla mia destra vendono il programma. Vado a comprarlo. È indispensabile: mi servirà nei giorni futuri quando sentirò il bisogno di ritornare alla mia vita precedente. Perché so già che nel mio vivere il dopo sentirò la mancanza di tutto questo e quando non ce la farò più, prenderò in mano quel prezioso libretto e lo sfoglierò come fanno le coppie in crisi coniugale con il loro album di nozze. Cerco il mio palco. Eccolo. Che non-luogo magnifico il mio palco. Siamo in cinque persone: la mia amica, io, una coppia davanti a noi e un inglese dietro. Non ci conosciamo, eppure, come per un tacito accordo, siamo come una piccola comunità, come un gruppo di adepti pronti ad assorbire il Rito nel suo Tempio. Chissà se per qualcuno di loro sarà anche l’Iniziazione. La mia iniziazione l’ho avuta più di un anno fa e da allora il mio bisogno del Rito è diventato sempre più frequente. Sono diventata un’adepta. Perché tutto questo non lo posso vivere con uno o due sensi. Mi servono tutti e cinque. I miei occhi guardano: com’è sempre bellissimo il lampadario, chissà che persone importanti ci sono in platea, mi piacerebbe toccare la stoffa del sipario. Le mie orecchie ascoltano: il brusio della gente, l’orchestra che si sta accordando, quell’inconfondibile rumore di legno che scricchiola. Il mio olfatto assorbe: profumi costosi, dopobarba pregiati, la polvere dell’antico. Mi piace quando l’odore del lusso si mescola a quello dell’arte: la parte snob che è in me è appagata. Le mie mani toccano: il velluto, il legno, il mio prezioso programma. Anche la mia bocca sente il sapore del rossetto che non uso quasi mai. Chissà come sarà questa volta? Provo una forte antipatia per il protagonista maschile e spero che il Grande Artista che lo interpreta me lo renda almeno sopportabile. Histoire Du Manon sta per andare in scena …
Le luci si abbassano … trattengo il respiro. Tutto quello che sto per vivere non è scontato. Non è un film che è nato fatto in certo modo e rimarrà sempre uguale a se stesso. Quello che sta per andare in scena è un qualcosa di vivo che non si ripeterà. Ecco. Entra il direttore d’orchestra. Applausi. Comincia la musica … si apre il sipario.
Armonia che s’infrange nel dolore della vita. Gioia, dolore, vittorie, sconfitte. Musica che avvolge il silenzio del mio palco. Luce che infrange il buio della platea. Ma tutto andrà bene. Me lo sento. Anche se conosco la storia e so che non è così. Fine primo atto. Pausa. Ti prego fa che duri poco. Mi siedo e aspetto. Sono spaesata. Il mio corpo è qui. Fisicamente c’è, ma la mia mente non ha ancora abbandonato quel magico parquet.
Secondo atto. L’Amore sta trionfando. Si sono ripresi. Ecco. Il sogno diventa fluido. La poesia si tocca con mano. Ora so anche con il cuore che l’Amore perderà. C’è un sacco di gente cattiva intorno a quell’Amore è troppo fragile perché sopravviva alla Vita. La platea resta silente e ipnotizzata. Non credo che ci sia qualcuno in grado di respirare, eppure tutti lo fanno. Questo è il potere del riflesso incondizionato: nessuno ha il coraggio di farlo, ma nessuno è in grado di smettere. Altra pausa. Per ingannare l’attesa cerco anche un bisogno impellente. Per i miei gusti le pause durano troppo a lungo, ma so che la gente viva che poi sarà sul palco ne ha bisogno.
Terzo atto. La storia sta volgendo al termine. L’Amore non vince. Il Conformismo sì. Ora sono sul palco con loro. Sento i loro respiri affannosi, avverto distintamente che quei movimenti così ben studiati e preparati appartengono a loro e a loro soltanto, ma che a noi poveri mortali lasciano il dono di poterli ammirare anche se solo per poco tempo.
Il sipario si chiude su un volto distrutto dal dolore. È finita. È durata troppo poco. Ora ci sono gli applausi. Vi prego non andate via subito! Rimanete ancore per un po’! Non potete lasciarmi così! Ancora un minuto dai … cosa vi costa?! Ancora applausi. Il sipario si apre e chiude. Non ce la facciamo: lasciarli andare via è troppo per noi. Non possono riprendere le loro personalità dopo quello che ci hanno fatto vivere. Non ancora. Ancora applausi. E loro tornano. Ancora per poco.
Ora è davvero finito. Finito tutto. Ed io mi sento sfinita. Sono stanchissima. Come se avessi vissuto in prima persona le avventure dei protagonisti. Troppe emozioni in una sola sera. Chissà quando mi riprenderò. Chissà se mi riprenderò. Tutte le volte ho questo dubbio. E inizio a credere di non riprendermi mai del tutto perché ho bisogno della mia dose di balletto sempre più frequentemente.
Adesso c’è chi mi chiede se mi è piaciuto. Bella domanda. Mi è piaciuto? Un programma televisivo mi può piacere. Una fotografia. Un film. Questa è tutta un’altra cosa. Questo l’ho vissuto. E una cosa che vivi non ti piace. Una cosa che vivi ti emoziona, ti rattrista, ti fa incazzare, ti rallegra, ti fa gioire oppure ti mette ansia. Ti da vita e te ne chiede in cambio. Se una cosa mi piace, vuol dire che mi dona solo un sentimento bidimensionale, ma se la vivo quello che provo non può essere ridotto alla bidimensionalità. Perché io sono così. Non sono bidimensionale.